Giocare con la salute mentale: gaming e dipendenza

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gaming e dipendenza

I videogiochi hanno una brutta reputazione. Fin qui, nulla di nuovo: sin dal loro esordio sono stati oggetto di innumerevoli controversie. In Pokémon sono stati trovati presunti messaggi satanici, Mortal Kombat è stato additato per la presenza eccessiva di sangue e violenza, la modalità Hot Coffee di GTA: San Andreas ha fatto molto parlare di sé. Insomma, praticamente attorno a qualsiasi videogioco si addensa una certa dose di isteria.

Non di rado, poi, la cronaca porta alla luce storie particolarmente angoscianti. Come quella della coppia sudocoreana che, per giocare a Prius Online (un gioco simile a Second Life), trascurò la figlia di tre mesi fino a farla morire di fame; o quella del sedicenne dell’Ohio che sparò ai suoi genitori, uccidendo la madre e ferendo gravemente il padre, perché gli avevano nascosto la copia di Halo 3. Sono due esempi estremi? Probabilmente sì, ma danno comunque credito a quanti lamentano un eccesso di indulgenza nei confronti dei videogiochi.

Ma quanta verità c’è dietro a tutte queste critiche? In questo articolo cerchiamo di andare un po’ più a fondo nella faccenda: alla fine della lettura, avrai qualche elemento in più per formare la tua opinione personale.

Vera ossessione o banale esagerazione?

L’avversione verso le innovazioni tecnologiche – detta tecnofobia – non è un fenomeno recente, come ci si potrebbe aspettare: in qualche forma, era presente nell’essere umano centinaia di migliaia di anni fa. Pensiamo al sommo filosofo Socrate, che si dichiarava contrario alla scrittura. Platone (lui, sì, scrivendo) lo cita: «La scrittura produce dimenticanza in chi la esercita: crea parvenza di sapere, ma non sapere in sé».

Aneddoti come questo mettono facilmente in ridicolo le questioni tecnofobiche più infondate. Sui videogiochi, la più datata di queste risale agli anni Ottanta, con l’avvento dei videogiochi arcade. La maggior parte della popolazione adulta li considerava una terribile minaccia, adducendo le più svariate motivazioni per sostenere che avrebbero rovinato i ragazzi: accesso alle droghe, abuso di alcool, dipendenza dal gioco stesso e similarità con il gioco d’azzardo.

Un percorso accidentato verso l’ufficialità

Dipendenza” e “gioco d’azzardo” sono due concetti cui prestare particolare attenzione. Casi di abitudini di gioco patologiche sono sempre stati presenti fra i gamers ma, spesso, si esagera quando si parla di “dipendenza”. Le caratteristiche dei videogiochi in qualche modo assimilabili al gioco d’azzardo erano state un po’ assenti dai riflettori dai tempi del declino dei videogiochi arcade, per tornare alla ribalta negli ultimi anni a causa di nuove tecniche di monetizzazione come, ad esempio, quella delle loot boxes.

Nel settembre 2018, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito la dipendenza da gioco (gaming disorder) nell’ICD-11, provocando un acceso dibattito: com’è facile immaginare, gli esponenti del settore “incriminato” non presero molto bene le accuse rivolte ai loro prodotti, da quel momento in poi ufficialmente colpevoli di avere effetti deleteri sulla salute dei loro consumatori.

Secondo i produttori di giochi, la conclusione cui era giunta l’OMS era quantomeno affrettata; persino vari psicologi cognitivo-comportamentali si dichiararono contrari e, sotto la guida del professor Andrew Przybylski, si rivolsero all’OMS in una lettera aperta. Per tutta risposta, però, l’American Psychiatric Association inserì la voce “Internet Gaming Disorder“ (dipendenza dai giochi online) nel DSM-5.

Il problema della riabilitazione

Come avviene per tutti i tipi di dipendenza, una volta che il soggetto ha superato un determinato limite nella propria ossessione, le probabilità che l’auto-aiuto abbia successo sono poche.

Le dipendenze correlate al gioco, di solito, allo stadio iniziale si manifestano come una fuga dalla realtà sana e legittima. Sana? Legittima? Troppo bello per essere vero. L’avanzare della dipendenza può essere lento ma, una volta che il giocatore/la giocatrice si mostra troppo cedevole, cominciano a mostrarsi i problemi: in principio, il giocatore comincia a preferire i videogiochi agli altri hobby e attività sociali; poi comincia a evitare il sonno; infine, quando comincia a trascurare l’igiene, la situazione è ufficialmente molto seria.

È importante notare, comunque, che la dipendenza dal gioco da sola è rara: più spesso è spia di altre problematiche. Gli individui più vulnerabili sono quelli che soffrono di disturbo bipolare, ansia sociale, depressione, autismo eccetera. Un altro lato particolarmente interessante di questo disturbo è quello relativo al gioco d’azzardo: un numero considerevole di persone che soffrivano di dipendenza da gioco d’azzardo sono diventate dipendenti dai videogiochi, nel tentativo di sostituire la loro pericolosa ossessione con una attività “divertente e innocua”.

La dipendenza da gioco d’azzardo è considerata ufficialmente un disturbo da molto tempo: l’American Psychiatric Association l’aveva inserita nel DSM-3 nel 1980. Non sorprende, quindi, che l’argomento sia trattato in un enorme numero di siti web, che offrono anche aiuto ai giocatori che ne hanno bisogno. Per quanto riguarda la dipendenza da videogiochi, invece, per lungo tempo le opzioni di supporto sono state totalmente assenti. I governi cercano di fare del proprio meglio, con risultati diversi dall’uno all’altro. Particolarmente attivi sono quelli dei Paesi orientali in cui il problema è maggiormente presente, ad esempio il Giappone, con il fenomeno degli hikikomori, o la Corea del Sud e la Cina, che hanno introdotto un vero e proprio coprifuoco per i giovani.

In definitiva, gli enti privati sono stati i primi a fronteggiare la crescente richiesta di riabilitazione, seppur con prezzi altissimi e non sempre nel migliore dei modi: oggi, man mano che gli studiosi si addentrano sempre di più nello studio della dipendenza dal gioco, arrivando a comprenderla meglio, speriamo nell’avvento di soluzioni migliori e alla portata di tutti.

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